venerdì, ottobre 10, 2008

Giustizia per Riccardo

Riccardo aveva 34 anni quando morì ammanettato mani e piedi nella sua abitazione alla periferia di Trieste. Intorno a lui almeno quattro poliziotti che adesso rischiano di finire sotto processo per omicidio colposo: Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi. Per loro, infatti il pubblico ministero Pietro Montrone ha presentato tre giorni fa la richiesta di rinvio a giudizio al gip Enzo Trucellito. Una vicenda terribile che approda finalmente in un’aula di Tribunale dopo quasi tre anni di una battaglia legale condotta in ostinata solitudine da una famiglia ferita e offesa. Dallo Stato. Una battaglia iniziata il 27 ottobre del 2006, quando su Borgo San Sergio era già sceso il buio. Al quarto piano di una palazzina Ater c’è Riccardo Rasman: ha 34 anni e da diverso tempo è in cura al Centro Igiene Mentale di Domio. Ha una pensione da invalido per problemi psichici iniziati molti anni prima, dopo lunghi mesi di sevizie e atti di nonnismo a cui era stato costretto, spesso con la violenza, durante il servizio militare. Riccardo è felice perché forse ha trovato un lavoro e nel monolocale che aveva avuto in affitto, pur vivendo ancora coi genitori, festeggia a modo suo. La musica di una radiolina, qualche petardo lanciato fuori dalla finestra e una goffa danza, nudo alla finestra. I vicini si lamentano e chiamano la Polizia, che interviene con una volante. Gli agenti bussano alla porta, ma Riccardo si rifiuta di aprire. È spaventato, grida e li minaccia. Qualcuno dei vicini avverte gli agenti, spiega loro chi è Riccardo e racconta che di lui si sono presi cura i medici del Cim. Eppure la polizia decide di intervenire lo stesso. Arrivano altri due mezzi e i Vigili del Fuoco sfondano la porta. Ne nasce una violentissima colluttazione, Riccardo viene ferito e perde sangue. Prima di essere immobilizzato da almeno quattro agenti si difende, ma prende pugni in faccia e colpi sul resto del corpo. Forse anche, ipotizza la procura, con il piede di porco che era stato usato per sfondare la porta. Lo ammanettano, le braccia piegate dietro la schiena, le caviglie bloccate con un fil di ferro. Riccardo respira affannato, si lamenta. Perde conoscenza e muore in pochi minuti, la faccia gonfia per le botte, livida per quel respiro strozzato in gola e sporca di sangue. Come il muro contro cui gli agenti lo hanno spinto, le lenzuola del letto e le piastrelle bianche del pavimento. I poliziotti, ricostruisce il pm nell’atto di chiusura delle indagini, «dopo essere riusciti a spingerlo a terra in posizione prona, al fine di immobilizzarlo e ammanettarlo, esercitavano sul tronco del Rasman, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena che premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie». In questo modo, si conclude la ricostruzione del pubblico ministero, «procuravano al Rasman una asfissia “da posizione” che lo conduceva alla morte».
Ed è per questo motivo che sui quattro agenti pende adesso una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo: perché «eccedendo colposamente i limiti stabiliti dalla legge, ovvero imposti dalla necessità, per illecito adempimento di un dovere e per l’esercizio di una legittima difesa, cagionavano per colpa la morte di Riccardo Rasman». Ossia di quel ragazzo che prima dell’irruzione degli agenti aveva lasciato sul tavolo della cucina un biglietto poi ritrovato dalla famiglia: «Mi sono calmato, per favore non fatemi del male».
Tredici mesi prima, su una strada di Ravenna era morto Federico Aldrovandi. Anche lui picchiato a sangue da quattro agenti della Polizia ora sotto processo per omicidio colposo. Anche lui, secondo la procura, ucciso da una asfissia posturale. Un legame rosso sangue che unisce due destini e che ha spinto la famiglia Rasman ad affidarsi alle cure dell’avvocato Fabio Anselmo (che collabora Giovanni Di Lullo), lo stesso legale che da anni combatte al fianco di Patrizia Aldrovandi la sua battaglia per la giustizia. Contro lo Stato.

Massimo Solani, l'Unità 10 ottobre

venerdì, ottobre 03, 2008

Il solito Gentilini

Il sindaco sceriffo, deposta ormai da qualche anno la fascia tricolore del Comune di Treviso, non s’è mai tolto dal petto la stella e dalla bocca l’eloquio forbito che in passato gli è valso tanti titoli di giornale quanti fascicoli di inchiesta della magistratura. L’ultima è notizia di ieri e arriva da Venezia, dove la procura ha aperto una indagine contro il vice sindaco di Treviso per le frasi rivolte dal palco durante la festa della Lega Nord nella città della laguna, il 14 settembre scorso. «Istigazione all’odio razziale», l’ipotesi di reato che i pubblici ministeri contestano all’esponente leghista. La stessa accusa per cui, un anno fa, la procura di Treviso lo iscrisse nel registro degli indagati per le sue parole sulla «pulizia etnica» degli omosessuali e per cui fu assolto in primo grado nel 2000: quando propose di far vestire da leprotti gli extracomunitari per far allenare le doppiette trevigiane.
E a Venezia Gentilini era tornato a cavalcare il suo vecchio cavallo di battaglia, tuonando contro i clandestini e l’Islam: «Voglio la rivoluzione contro i clandestini - aveva urlato rosso in viso davanti ad una folla plaudente di camicie verdi - Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari. Io ne ho distrutti due a Treviso. Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici qui, comprese le gerarchie ecclesiastiche. Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moschee». Un crescendo di bestialità e insulti che non hanno risparmiato nè i magistrati nè i giornalisti: «Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio la tolleranza doppio zero - ha tuonato - Voglio la rivoluzione contro le televisione i giornali che infangano la Lega. Prenderò dei turaccioli per ficcarli in bocca e su per il culo a quei giornalisti. Voglio la rivoluzione contro la magistratura. Ad applicare le leggi devono essere i giudici veneti. Queste sono le parole del vangelo secondo Gentilini».
Del resto i rapporti fra Gentilini e le toghe sono da sempre burrascosi, e le tensioni negli anni sono cresciute di pari passo con la volgarità e la pesantezza delle esternazioni del “sindaco sceriffo”. Che, forte del consenso elettorale in una delle roccaforti del Carroccio, è diventato un po’ il simbolo di una certa Lega dai toni violenti e razzisti. Tanto che nel febbraio del 2001 il Viminale lo richiamò all’ordine invitandolo a «mantenere atteggiamenti confacenti» pena «spiacevoli conseguenze». Minacce che non hanno spostato di un millimetro la barricata da cui Gentilini combatte da anni contro omosessuali, clandestini e persino animali. Se infatti fecero sorridere tutta Italia le sue battaglia contro i cigni del Sile (gennaio 2003) o contro i cani «di razza straniera» (maggio 2008), decisamente più seria e grave la lunga lista di esternazioni sul filo fra la volgarità populista e il razzismo più smaccato. Contro gli extracomunitari («da rimandare a casa nei vagoni piombati», disse nel maggio 2001, «bisogna prendergli anche le impronte del naso», settembre 2002) e «i culattoni per cui serve una pulizia etnica». Ma dalle minacce di Gentilini non si salvò nemmeno la candidata sindaco di Treviso del centrosinistra, Maria Luisa Campagner. Lui, infatti, si presentò in piazza al momento dei primi exit poll, il 26 maggio del 2003, e sventolando in aria tre lunghi chiodi minacciò: «Serviranno per appendere l’orsetta siberiana e scotennarla piano piano, come si fa con la pelle di un coniglio». Ma lui è così, e non si ferma: «Io sono abituato ad essere un tribuno - spiegava ieri - questa è la mia eloquenza, non posso mettermi il silenziatore sennò non sarei Gentilini».

Massimo Solani, l'Unità 3 ottobre