sabato, maggio 16, 2009

giovedì, gennaio 29, 2009

Da Lampedusa a Trieste

Sono appena rientrato da Lampedusa. Ho visto la disperazione negli occhi di centinaia di poveri cristi scappati da guerre e fame alla ricerca di un futuro migliore. Ho visto la disperazione negli occhi di una cittadinanza stanca di uno Stato che l'ha dimenticata e che la usa come avamposto contro l'immigrazione clandestina. Nel nome di una politica miope convinta che le espulsioni di massa, il filo spinato e la forza pubblica siano più forti della disperazione che spinge migliaia di persone ad attraversare deserti e a rischiare la vita su un mare buio come la pece.
E' una storia che non conoscerà mai fine...

Ma con la mente e l'indignazione voglio volare dall'altra parte dell'Italia, a Trieste. Dove il Gup, con rito abbreviato, ha condannato tre dei quattro poliziotti che erano accusati dell'omicidio (colposo) di Riccardo Rasman. Sei mesi di reclusione, una miseria per la morte di un ragazzone inoffensivo a cui la natura aveva donato un cuore enorme e la testa di un bambino nel corpo di un gigante. Alla famiglia, beffa che si aggiunge al danno, andranno 20 mila euro di risarcimento. Una vergogna. La sua storia l'avevo raccontata qualche tempo fa in questo post...

giovedì, gennaio 22, 2009

Lasciate in pace Eluana


Non ne posso più dell'ipocrisia che ruota attorno alla vicenda di Eluana Englaro. Non ne posso più della sofferenza che alcuni "devoti" continuano ad infierire a lei e a suo padre Beppino che da anni si batte coraggiosamente per rispettare la voglia di vita di quella figlia che da troppo tempo giace senza speranza in un letto. per questo oggi vorrei segnalarvi l'appello che abbiamo lanciato dal sito de l'Unità. Per chiedervi di aderire, per far sentire la nostra voce oltre l'oscurantismo di quella parte del paese che pretenderebbe di anteporre una morale alle leggi italiane e alle sentenze dei tribunali. Lo trovate qui. Grazie a tutti.


Eluana è anche nostra figlia. Ci rivolgiamo attraverso questo appello alle massime istituzioni della Repubblica perché ciascuna per la sua parte si impegni a far rispettare una sentenza definitiva ed esecutiva.

Perché in Italia il diritto abbia la meglio sui ricatti, le intimidazioni, l'oscurantismo di chi non tiene conto della tragedia di una famiglia, simbolo di altre migliaia di persone che si trovano nella medesima situazione.

Perché i genitori di Eluana siano messi nella condizione di garantire alla figlia una morte dignitosa.

Eluana è anche nostra figlia.

martedì, gennaio 20, 2009

Si ricomincia. Ma da dove si era finito...

Dopo mesi di balck out logistico, torno ad aggiornare queste pagine. E si riparte da dove più o meno ci eravamo lasciati. Avevo provato a scrivere qualche riga sull'assurda decisione della sezione disciplinare del Csm, ma poi ho cancellato tutto e ho lasciato perdere. Sono anni che sbatto la testa su un muro di gomma e francamente dopo scontri con i colleghi, litigi in redazione e svariate querele, non so più che parole usare per farmi capire. "Chi tocca certi fili, muore", disse un giorno de Magistris, prima di essere cacciato dalla procura di Catanzaro e confinato al Riesame di Napoli. Aveva ragione, e ora ne sanno qualcosa anche Luigi Apicella, Dionigio Verasani e Gabriella Nuzzi. Che a Salerno avevano provato a are luce su quell'intreccio che era costato il posto a de Magistris. E' toccato anche a loro, in questa Italia in cui ormai si prepara il grande inciucio sulla giustizia. Sopravviveremo anche a questo, ma intanto proviamo a non chinare il capo.
Per oggi è già abbastanza, vi lascio con le parole che de Magistris ha affidato a Micromega. Ora che sono tornato, non perdiamoci di vista.


L’altro giorno, in uno dei tanti viaggi tra Napoli e Catanzaro, ascoltavo la bellissima canzone di Francesco De Gregori e mi venivano in mente frammenti di storia scritti da magistrati della Repubblica italiana.
Pensavo al coraggio del Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa, che, da solo, si assunse la responsabilità di firmare degli ordini di cattura, al coraggio di Rosario Livatino ed Antonino Scopelliti che non piegarono la testa e decisero di esercitare il loro ruolo con rigore ed indipendenza, a quello di Paolo Borsellino che consapevole di quello che stava accadendo ai suoi danni cercava di fare presto per giungere alla verità e per comprendere anche le ragioni della morte di Giovanni Falcone e degli uomini della sua scorta.
Pensavo a quanta mafia istituzionale accompagna tanti eccidi accaduti negli ultimi trent’anni.
Pensavo a quello che sta accadendo in questi mesi in cui si consolidano nuove forme di “eliminazione” di magistrati che non si omologano al sistema criminale di gestione illegale del potere e che pretendono, con irriverente ostinazione, di adempiere a quel giuramento solenne prestato sui principi ed i precetti della Costituzione Repubblicana, nata dalla resistenza al fascismo.
Pensavo a quello che possono fare i singoli magistrati oggi per opporsi ad una deriva autoritaria che ha già modificato di fatto l’assetto costituzionale di questo Paese.
Pensavo a quello che può fare ogni cittadino di questa Repubblica per dimostrare che, forse, ormai, l’unico vero custode della Costituzione Repubblicana non può che essere il popolo, con tutti i suoi limiti.
In attesa di quel fresco profumo di libertà – del quale parla il mio amico Salvatore Borsellino e per il quale ci batteremo in ogni istante della nostra vita, in quella lotta per i diritti e per la giustizia che contraddistingue ancora persone che vivono nel nostro Paese – che ci farà comprendere quanto concreto sia il filo conduttore che accomuna i fatti più inquietanti della storia giudiziaria d’Italia degli ultimi 30 anni, non dobbiamo esimerci dall’evidenziare alcune brevi riflessioni.
In attesa dei progetti di riforma della giustizia (che mi pare trovano d’accordo quasi tutte le forze politiche) che sanciranno, sul piano formale, l’ulteriore mortificazione dei principi di autonomia ed indipendenza della magistratura, non si può non rilevare che i predetti principi – che rappresentano la ragione di questo mestiere che, senza indipendenza ed autonomia, è solo esercizio di funzioni serventi al potere costituito – sono stati e vengono mortificati proprio da chi dovrebbe svolgere le funzioni di garanzia e tutela di tali principi.
Dall’interno della Magistratura, in un cordone ombelicale sistemico di gestione anche occulta del potere, con la scusa magari di evitare riforme ritenute non gradite, si procede per colpire ed intimidire (anche con inusitata deprecabile violenza morale) chi, all’interno dell’ordine giudiziario, non si omologa, non intende appartenere a nessuno, non vuole assimilarsi alla gestione quieta del potere, ma rimane fedele ed osservante dei valori costituzionali di uguaglianza, libertà ed indipendenza che chi dovrebbe garantirne tutela – anche con il sistema dell’autogoverno – tende, in realtà, a voler governare, dall’interno, la magistratura rendendola, di fatto, prona ai desiderata dei manovratori del potere.
Ma non bisogna avere timore. La storia – ed ancora prima la conoscenza e la rappresentazione di fatti quando essi saranno pubblici – ci faranno capire ancor meglio di quanto tanti hanno già ben compreso, le vere ragioni poste a fondamento di prese di posizione anche di taluni magistrati (alcuni dei quali ritengono anche di svolgere una funzione di “rappresentanza”, in realtà, concretamente, insussistente).
Quello che rileva in questo momento e che mi pare importante è che, in attesa del fresco profumo di libertà, che spazzerà via alcuni protagonisti indecenti di questo periodo, ogni magistrato abbia un ruolo attivo, non si disorienti, diventi attore principale – nel suo piccolo ma nella grande “forza” di questo mestiere che richiede oneri prima ancora che onori – della salvaguardia dei valori costituzionali.
Ognuno di noi, chi ha deciso di fare questo lavoro con amore, passione e forte idealità, ha un luogo, interno alla propria coscienza, al proprio cuore ed alla propria mente, dal quale attingere forza e determinazione nei momenti bui. E’ questa l’ora delle risorse auree: se insieme sapremo esercitare le nostre funzioni in autonomia, libertà, indipendenza, senza paura di essere eliminati da intimidazioni istituzionali o da “clave” disciplinari utilizzate in violazione della Costituzione Repubblicana.
Per me, le riserve energetiche sono state e sono tuttora, soprattutto, le immagini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche perché nei giorni delle stragi mafiose – con riferimento alle quali attendiamo verità e giustizia anche per le complicità sistemiche intranee alle Istituzioni – avevo appena consegnato gli scritti nel concorso in magistratura. Quando Antonino Caponnetto disse che tutto era finito, nel mio cuore ed in quello di molti altri magistrati è scattata una molla per dimostrare che non doveva essere così, che, invece, bisogna lottare e non mollare mai. Anche nella certezza di poter morire - come diceva Paolo Borsellino nella consapevolezza che tutto potesse costarci assai caro – vi sono magistrati che ogni giorno cercano di applicare, nei provvedimenti adottati, il principio che la legge è uguale per tutti.
Da quando le organizzazioni mafiose hanno dismesso la strategia militare di contrasto ed eliminazione dei rappresentanti onesti e coraggiosi delle Istituzioni, il livello di collusione intraneo a queste ultime si è consolidato enormemente, tanto da rappresentare ormai quasi una metastasi istituzionale che conduce alla commissione di veri e propri crimini di Stato. Questo comporta che oggi dobbiamo difendere, ogni giorno e con i denti, la nostra indipendenza e l’esercizio autonomo della giurisdizione – nell’ossequio del principio costituzionale sancito dall’art. 3 della Costituzione – anche da veri e propri attacchi illeciti, talvolta condotti con metodo mafioso, provenienti dall’interno delle Istituzioni.
Che può fare, allora, un magistrato? Che può fare un Uditore Giudiziario che a febbraio prenderà le funzioni giurisdizionali? Che può fare un Giudice civile? Che può fare un Giudice del Tribunale del Riesame? Che può fare un Giudice del settore penale? Che può fare un Pubblico Ministero? Che possiamo fare quelli di noi che non si piegano al conformismo giudiziario? Che possiamo fare quelli che vogliono esercitare solo questo lavoro con dignità e professionalità, senza pensare a carriere interne o esterne all’ordine giudiziario?
Credo che la ricetta è semplice, anche se sembra tutto così complicato in questo periodo così buio per la nostra Costituzione per la quale non dobbiamo mai smettere di combattere: si deve decidere senza avere paura – innanzi tutto di chi dovrebbe tutelarci e che si dimostra sempre più baluardo di certi centri di interessi e poteri, nonché fonte di pericolo per l’indipendenza del nostro stupendo lavoro –, senza pensare a valutazioni di opportunità, senza scegliere per quella opzione che possa creare meno problemi, decidere nel rispetto delle leggi e della Costituzione, pronunciarsi nel segno della Verità e della Giustizia.
In tal modo, avremmo adempiuto, con semplicità e nello stesso tempo con coraggio, al nostro mandato, la coscienza non si ribellerà con il trascorrere del tempo, magari potremmo anche capitolare, ma, come dice Salvatore Borsellino, lo avremmo fatto senza “esserci venduti”. Non avremo svenduto la nostra indipendenza, non avremo piegato la nostra coscienza, non avremo abdicato al nostro ruolo, non avremo abbassato la testa: ci ritroveremo con la schiena dritta, con il morale alto, con il rispetto di tutti (anche dei nostri avversari).
Questo ci chiedono le persone oneste: di non “consegnarci” e mantenere alto il prestigio dell’ordine giudiziario in un momento in cui la questione morale assume connotati epidemici anche al nostro interno. Non bisogna avere paura di un potere scellerato che pretende di opprimere la nostra libertà ed il nostro destino.
Ai giovani colleghi mi permetto, con umiltà e per l’immenso amore che preservo per questo lavoro, di esortarli a non temere mai le decisioni giuste e di perseguire sempre la strada della giustizia e della verità anche quando questa può costare caro. Io ero consapevole che mi avrebbero colpito e che mi avrebbero fatto del male, ma non ho mai piegato, nemmeno per un istante, il percorso delle mie scelte ed oggi mi sento, come sempre, sereno, ricco di energie, molto forte, perché dentro il mio cuore e la mia mente sono consapevole di aver espletato ogni condotta nell’interesse della Giustizia e nel rispetto delle leggi e della Costituzione Repubblicana.
Non ascoltate quelle sirene, anche interne alla nostra categoria, che vi inducono – magari in modo subdolo e maldestro – a piegare la testa in virtù di una pseudo-ragion di stato che consisterebbe nel pericolo imminente di riforme sciagurate, per evitare le quali dobbiamo, strategicamente, “girarci” dall’altra parte quando ci “imbattiamo” nei c.d. “poteri forti”. Le riforme – anzi le controriforme – ci saranno comunque, forse saranno terribili, ma almeno non dobbiamo essere noi a dimostrarci timorosi e con le gambe molli, malati, come diceva Piero Calamandrei, di agorafobia.
L’indipendenza si difende senza calcoli e ad ogni costo, l’amore della verità può costare l’esistenza.
Ed essa si difende anche da chi la mina, in modo talvolta anche eversivo, dal nostro interno. Nella mia esperienza gli ostacoli più insidiosi sono sempre pervenuti dall’interno della nostra categoria: non sono pochi i magistrati, oramai, pienamente inseriti in un sistema di potere criminale che reagisce alle attività di controllo e che si muove, dal sistema, per evitare che sia fatta verità e giustizia su tanti fatti criminali inquietanti avvenuti nella storia contemporanea del nostro Paese.
Sono convinto che la magistratura non soccomberà definitivamente solo se saprà ancora esercitare la sua funzione senza paura, ma con coraggio, nella consapevolezza che anche da soli, nella solitudine propria della nostra funzione, quando ognuno di noi deve decidere e mettere la firma sui provvedimenti, e, quindi, valutare fatti e circostanze, lo farà senza farsi intimidire dalle conseguenze del suo agire.
La paura rende gli uomini schiavi, così come le decisioni dettate con un occhio a carriere e posti di comando sono destinate a mortificare le funzioni prima ancora che rendere indegne le persone che le rappresentano.
Quindi, in definitiva, la storia la dobbiamo scrivere anche noi, nel nostro piccolo mondo, pur nella consapevolezza che alcuni di noi pagheranno un prezzo ingiusto e magari anche molto duro, ma questo è per certi versi ineluttabile quando si è deciso di svolgere una funzione che ci impone di difendere, nell’esercizio della giurisdizione, i valori di uguaglianza, libertà, giustizia, verità, quali effettivi garanti dei diritti di cui i cittadini, ed in primis i più deboli, ci chiedono concreta tutela.

martedì, novembre 04, 2008

Povera Difesa...

Magari il Piave è ancora «calmo e placido», piuttosto sono i fanti a mormorare irritati. E non solo loro, l’Esercito Italiano: anche l’Aeronautica Militare, i Carabinieri e la Marina. Divise di terra, di cielo e di mare che oggi dovrebbero festeggiare in parata dietro al ministro della Difesa Ignazio La Russa la “Giornata delle Forze Armate” e il “90° anniversario dell’Unità Nazionale”, ma che invece sono in subbuglio e davvero arrabbiati. «Perché la festa, quella vera - ironizza un militare con più di qualche grado - ce l’hanno già fatta: in Finanziaria». Frutti avvelenati della cura dimagrante imposta dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti che a colpi di forbice ha tagliato alla cieca i bilanci di tutti i ministeri, Difesa incluso. E per le Forze armate il risultato è da fame: -838,1 milioni di euro nel 2009 rispetto all’anno in corso e un progressivo snellimento che porterà gli stanziamenti della Difesa a 18,9 miliardi nel 2011 contro i 21,1 del 2008. Dati che non circolano clandestini su blog e newsletter ma che il ministero ha messo nero su bianco nella propria nota illustrativa alla Finanziaria. E il saldo ampiamente negativo, hanno scritto gli uffici della Difesa, «rischia di compromettere irrimediabilmente le capacità produttive». Particolarmente complicata la situazione per la funzione Difesa, dove le previsioni di spesa per il 2009 registrano -7% rispetto al 2008 (14.339 milioni contro i 15.408, lo 0,87% del Pil rispetto all’1,42% di media europea). Meno 7% nel prossimo anno anche per le spese per il personale militare e civile, una sforbiciata che salirà al 40% a decorrere dall’anno 2010 per le risorse «destinate alla professionalizzazione». Soldi che, in pratica, metteranno in discussione sia l’assunzione di nuovo personale che la stabilizzazione dei «precari» che già da anni vestono la divisa. Non sono migliorinemmeno le notizie riguardo al settore “esercizio”, ossia a quei fondi che servirebbero per la manutenzione dei mezzi e l’addestramento del personale. Il condizionale però, a leggere i segno negativi, è d’obbligo: -775,3 milioni rispetto al 2008 (-29,1%). E cosi, hanno scritto gli uffici della Difesa, i fondi «risultano assolutamente insufficienti per assicurare, sia pure al minimo livello, le attività di addestramento e formazione, le attività manutentive, scorte di materiali per uno strumento aderente agli impegni nazionali oltre a quelli Nato/Ue/Onu». Perché di questi ritmi, prosegue l’analisi ministeriale, c’è «il rischio di un progressivo decadimento operativo con una riduzione prossima all’azzeramento delle esercitazioni, delle ore di moto e di volo». E il calcolo è presto fatto: grazie ai nuovi tagli imposti dal governo, infatti, nel 2009 «l’Esercito potrà svolgere circa 2.880 esercitazioni a fronte delle 7.500 del 2008. La Marina disporrà di circa 29.800 ore di moto a fronte delle 45.000 del 2008. L’Aeronautica potrà effettuare circa 30.000 ore di volo a fronte delle 90.000 del 2008». Niente male se si considera che soltanto poche settimane fa, nella relazione annuale del 2008 al parlamento, il ministero della Difesa denunciava che «il livello addestrativo complessivo è sceso ampiamente sotto il livello di guardia». Per correre ai ripari, allora, altri tagli. Anche alla manutenzione, giusto perché non si ripetano più casi simili a quello dell’incidente capitato due settimane fa in Francia ad un elicottero dell’Aeronautica italiana che ha causato la morte di otto militari. Così se nel 2009 il livello di efficienza sarà garantito per una percentuale di mezzi fra il 45 e il 65%, nel 2012 si arriverà ad un numero «prossimo allo zero». E anche questo, è scritto nero su bianco sui documenti ministeriali. «In pratica - scherzava amaramente proprio ieri un alto esponente della Difesa - è come avere una Ferrari e non i soldi per mettere la benzina o cambiare le gomme». E per il futuro, le cose difficilmente potranno migliorare visto che, in assoluta coerenza con quanto fatto ad esempio per la ricerca, il governo ha deciso di tagliare 750 milioni di euro (-22,1%) ai fondi del settore “investimento”. Una scelta che secondo i tecnici del ministro la Russa causerà «un forte rallentamento dell’adeguamento tecnologico della Difesa». Dati che non lasciano troppi dubbi sul futuro che attende le Forze Armate italiane. Tagli che colpiscono «in modo particolare il settore del personale e dell’esercizio - si legge nella relazione scritta dal ministero della Difesa - destinati nei due anni successivi a raggiungere condizioni di degrado tali da risultare difficilmente recuperabili, con conseguenti riflessi anche sugli impegni internazionali, sia in termini di presenza negli Organismi e comandi permanenti, sia per quanto attiene al contributo di Forze permanentemente date disponibili a Nato/Ue ed alla partecipazione di Missioni all’estero». Un grido d’allarme altissimo di fronte al quale, per logica e coerenza, un ministro dovrebbe dimettersi in polemica con il proprio governo. E La Russa invece che fa? Si mette da parte un fondo di 3 milioni di euro, sottratti al bilancio della scuola, e ci organizza la festa di chi invece non avrebbe proprio nulla da festeggiare. Una scelta che ha fatto infuriare sia le rappresentanze sindacali delle Forze Armate, i Cocer, che molte divise. «La manifestazione conclusiva di Roma - si è difeso La Russa - vedrà la partecipazione di Andrea Bocelli, Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa, bande e 150 tra orchestrali e coristi e avrà un costo di 300mila euro. Altri 200mila andranno per la comunicazione istituzionale e 250mila per l’occupazione del suolo pubblico».

Massimo Solani, l'Unità 4 novembre

venerdì, ottobre 10, 2008

Giustizia per Riccardo

Riccardo aveva 34 anni quando morì ammanettato mani e piedi nella sua abitazione alla periferia di Trieste. Intorno a lui almeno quattro poliziotti che adesso rischiano di finire sotto processo per omicidio colposo: Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi. Per loro, infatti il pubblico ministero Pietro Montrone ha presentato tre giorni fa la richiesta di rinvio a giudizio al gip Enzo Trucellito. Una vicenda terribile che approda finalmente in un’aula di Tribunale dopo quasi tre anni di una battaglia legale condotta in ostinata solitudine da una famiglia ferita e offesa. Dallo Stato. Una battaglia iniziata il 27 ottobre del 2006, quando su Borgo San Sergio era già sceso il buio. Al quarto piano di una palazzina Ater c’è Riccardo Rasman: ha 34 anni e da diverso tempo è in cura al Centro Igiene Mentale di Domio. Ha una pensione da invalido per problemi psichici iniziati molti anni prima, dopo lunghi mesi di sevizie e atti di nonnismo a cui era stato costretto, spesso con la violenza, durante il servizio militare. Riccardo è felice perché forse ha trovato un lavoro e nel monolocale che aveva avuto in affitto, pur vivendo ancora coi genitori, festeggia a modo suo. La musica di una radiolina, qualche petardo lanciato fuori dalla finestra e una goffa danza, nudo alla finestra. I vicini si lamentano e chiamano la Polizia, che interviene con una volante. Gli agenti bussano alla porta, ma Riccardo si rifiuta di aprire. È spaventato, grida e li minaccia. Qualcuno dei vicini avverte gli agenti, spiega loro chi è Riccardo e racconta che di lui si sono presi cura i medici del Cim. Eppure la polizia decide di intervenire lo stesso. Arrivano altri due mezzi e i Vigili del Fuoco sfondano la porta. Ne nasce una violentissima colluttazione, Riccardo viene ferito e perde sangue. Prima di essere immobilizzato da almeno quattro agenti si difende, ma prende pugni in faccia e colpi sul resto del corpo. Forse anche, ipotizza la procura, con il piede di porco che era stato usato per sfondare la porta. Lo ammanettano, le braccia piegate dietro la schiena, le caviglie bloccate con un fil di ferro. Riccardo respira affannato, si lamenta. Perde conoscenza e muore in pochi minuti, la faccia gonfia per le botte, livida per quel respiro strozzato in gola e sporca di sangue. Come il muro contro cui gli agenti lo hanno spinto, le lenzuola del letto e le piastrelle bianche del pavimento. I poliziotti, ricostruisce il pm nell’atto di chiusura delle indagini, «dopo essere riusciti a spingerlo a terra in posizione prona, al fine di immobilizzarlo e ammanettarlo, esercitavano sul tronco del Rasman, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena che premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie». In questo modo, si conclude la ricostruzione del pubblico ministero, «procuravano al Rasman una asfissia “da posizione” che lo conduceva alla morte».
Ed è per questo motivo che sui quattro agenti pende adesso una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo: perché «eccedendo colposamente i limiti stabiliti dalla legge, ovvero imposti dalla necessità, per illecito adempimento di un dovere e per l’esercizio di una legittima difesa, cagionavano per colpa la morte di Riccardo Rasman». Ossia di quel ragazzo che prima dell’irruzione degli agenti aveva lasciato sul tavolo della cucina un biglietto poi ritrovato dalla famiglia: «Mi sono calmato, per favore non fatemi del male».
Tredici mesi prima, su una strada di Ravenna era morto Federico Aldrovandi. Anche lui picchiato a sangue da quattro agenti della Polizia ora sotto processo per omicidio colposo. Anche lui, secondo la procura, ucciso da una asfissia posturale. Un legame rosso sangue che unisce due destini e che ha spinto la famiglia Rasman ad affidarsi alle cure dell’avvocato Fabio Anselmo (che collabora Giovanni Di Lullo), lo stesso legale che da anni combatte al fianco di Patrizia Aldrovandi la sua battaglia per la giustizia. Contro lo Stato.

Massimo Solani, l'Unità 10 ottobre

venerdì, ottobre 03, 2008

Il solito Gentilini

Il sindaco sceriffo, deposta ormai da qualche anno la fascia tricolore del Comune di Treviso, non s’è mai tolto dal petto la stella e dalla bocca l’eloquio forbito che in passato gli è valso tanti titoli di giornale quanti fascicoli di inchiesta della magistratura. L’ultima è notizia di ieri e arriva da Venezia, dove la procura ha aperto una indagine contro il vice sindaco di Treviso per le frasi rivolte dal palco durante la festa della Lega Nord nella città della laguna, il 14 settembre scorso. «Istigazione all’odio razziale», l’ipotesi di reato che i pubblici ministeri contestano all’esponente leghista. La stessa accusa per cui, un anno fa, la procura di Treviso lo iscrisse nel registro degli indagati per le sue parole sulla «pulizia etnica» degli omosessuali e per cui fu assolto in primo grado nel 2000: quando propose di far vestire da leprotti gli extracomunitari per far allenare le doppiette trevigiane.
E a Venezia Gentilini era tornato a cavalcare il suo vecchio cavallo di battaglia, tuonando contro i clandestini e l’Islam: «Voglio la rivoluzione contro i clandestini - aveva urlato rosso in viso davanti ad una folla plaudente di camicie verdi - Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari. Io ne ho distrutti due a Treviso. Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici qui, comprese le gerarchie ecclesiastiche. Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moschee». Un crescendo di bestialità e insulti che non hanno risparmiato nè i magistrati nè i giornalisti: «Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio la tolleranza doppio zero - ha tuonato - Voglio la rivoluzione contro le televisione i giornali che infangano la Lega. Prenderò dei turaccioli per ficcarli in bocca e su per il culo a quei giornalisti. Voglio la rivoluzione contro la magistratura. Ad applicare le leggi devono essere i giudici veneti. Queste sono le parole del vangelo secondo Gentilini».
Del resto i rapporti fra Gentilini e le toghe sono da sempre burrascosi, e le tensioni negli anni sono cresciute di pari passo con la volgarità e la pesantezza delle esternazioni del “sindaco sceriffo”. Che, forte del consenso elettorale in una delle roccaforti del Carroccio, è diventato un po’ il simbolo di una certa Lega dai toni violenti e razzisti. Tanto che nel febbraio del 2001 il Viminale lo richiamò all’ordine invitandolo a «mantenere atteggiamenti confacenti» pena «spiacevoli conseguenze». Minacce che non hanno spostato di un millimetro la barricata da cui Gentilini combatte da anni contro omosessuali, clandestini e persino animali. Se infatti fecero sorridere tutta Italia le sue battaglia contro i cigni del Sile (gennaio 2003) o contro i cani «di razza straniera» (maggio 2008), decisamente più seria e grave la lunga lista di esternazioni sul filo fra la volgarità populista e il razzismo più smaccato. Contro gli extracomunitari («da rimandare a casa nei vagoni piombati», disse nel maggio 2001, «bisogna prendergli anche le impronte del naso», settembre 2002) e «i culattoni per cui serve una pulizia etnica». Ma dalle minacce di Gentilini non si salvò nemmeno la candidata sindaco di Treviso del centrosinistra, Maria Luisa Campagner. Lui, infatti, si presentò in piazza al momento dei primi exit poll, il 26 maggio del 2003, e sventolando in aria tre lunghi chiodi minacciò: «Serviranno per appendere l’orsetta siberiana e scotennarla piano piano, come si fa con la pelle di un coniglio». Ma lui è così, e non si ferma: «Io sono abituato ad essere un tribuno - spiegava ieri - questa è la mia eloquenza, non posso mettermi il silenziatore sennò non sarei Gentilini».

Massimo Solani, l'Unità 3 ottobre