giovedì, novembre 30, 2006

Placanica: non ho ucciso Carlo Giuliani

«Quando mi sono visto il sangue sulle mani ho tolto la sicura e ho caricato». «Non vedevo praticamente nulla, ero quasi steso. Mi è arrivato l’estintore sullo stinco, io ho gridato che avrei sparato, poi ho sparato in aria. Sono convinto di aver sparatoin aria, non ho preso la mira, è la verità». Dopo mesi di silenzio, un congedo assoluto, una candidatura politica e una misteriosa richiesta di danni ai genitori di Carlo Giuliani, Mario Placanica torna a parlare. E lo fa con una lunga intervista rilasciata al quotidiano Calabria Ora in cui ha raccontato i giorni del G8, i minuti precedenti l’uccisione di Carlo Giuliani, le ore successive e i mesi fino alla sua “cacciata” dell’arma. Sempre ripetendo la sua ultima verità: ho sparato in aria, non ho ammazzato io Carlo Giuliani. «Io non ero sicuro di averlo ucciso - spiega l’ex carabiniere - Mi venivano i dubbi perché se io ho sparato in aria, come fanno a dire che l’ho colpito in faccia, che sono un cecchino». E ancora: «Sono un capro espiatorio usato per coprire qualcuno». Ma l’intervista di Placanica è anche l’occasione per raccontare l’atmosfera che faceva da contorno alle giornate del G8 e all’assassinio di Giuliani: «Ci dicevano di stare attenti, ci raccontavano che ci avrebbero tirato sacche di sangue infetto. Ci dicevano di attacchi terroristici. La sensazione era come se dovessimo andare in guerra». Una guerra culminata con un ragazzo morto sul selciato, il viso trafitto da una pallottola. Una tragedia, piuttosto una festa per qualcuno. Come i commilitoni che accolsero Placanica in caserma la sera del 20 luglio. «Mi chiamavano il killer. I colleghi hanno fatto festa, mi hanno regalato un basco dei Tuscania, “benvenuto fra gli assassini”, mi hanno detto. Erano contenti. Dicevano morte sua vita mia, cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone su Carlo Giuliani». Insulti alla memoria, gravi quanto lo scempio fatto del cadavere di Carlo a piazza Alimonda. «Ci sono troppe cose che non sono chiare. Mi riferisco a quello che è successo dopo a piazza Alimonda. Perché alcuni militari hanno “lavorato” sul corpo di Giuliani? Perché gli hanno fracassato la testa con una pietra?». Perplessità sulle dichiarazioni di Placanica vengono espresse anche dal Comando Generale dell’Arma che ha chiesto che il testo dell’intervista «sia rimesso alle valutazioni dell’Autorità giudiziaria, anche a tutela degli interessi del personale chiamato in causa».Ma le parole di Placanica hanno riaperto la querelle sulla commissione d’inchiesta sui fatti del G8 (prevista dal programma dell’Unione ma “ferma” in commissione Affari costituzionali a Montecitorio, osteggiata dal centrodestra ma anche da Italia dei Valori e Rosa nel Pugno), un atto di indagine auspicato dallo stesso Placanica: «sarebbe l’occasione per fare luce su quello che è accaduto», ha spiegato l’ex carabiniere che nel maggio 2003 si è visto archiviare dal tribunale di Genova l’accusa di omicidio volontario. «L’unico modo per fare chiarezza - ha commentato Haidi Giuliani, mamma di Carlo ora senatrice di Rifondazione - è in un pubblico dibattimento nell’ambito di un processo e credo che la commissione di inchiesta si debba assolutamente fare. Se è vero, come dice Placanica, che non ha ucciso lui Carlo perché ha sparato in aria, è stato indotto a mentire per coprire il vero assassino. Spero che la magistratura apra immediatamente un’inchiesta e che la verità venga ristabilita. Dopo le sue affermazioni - ha concluso Haidi Gaggio Giuliani - vorrei che Placanica venisse messo sotto protezione». E se Rifondazione torna a chiedere la commissione d’inchiesta, da destra è un coro di no: «Noi siamo totalmente contrari», liquida lapidario Pier Ferdinando Casini. «Ci sono cose più importanti da fare» gli fa eco Ignazio La Russa.

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Quattro chiacchiere con Giuliano Giuliani, papà di Carlo.

Giuliano Giuliani è nella sua casa sulle colline sopra Genova, la stessa dove il 20 luglio del 2001 apprese della morte di suo figlio Carlo. «È una ferita che non si è mai chiusa - spiega - e che ogni volta fa più male. Ma assieme al dolore c’è la voglia di arrivare ad un dibattito pubblico su piazza Alimonda».

Quel dibattito che è stato negato dal tribunale...

«Certamente. Placanica dice di non aver ucciso Carlo e di aver sparato verso l’alto, ma i filmati mostrano una pistola che spara ad altezza uomo parallela al suolo. Allora manca qualcosa per arrivare alla verità».

Interpreto: o Placanica mente o c’è qualcun altro che ha sparato?

«Esatto. Quanti erano davvero su quel defender? Placanica spiega che dietro erano solo in due, più l’autista. Ma in tribunale nel processo per devastazione e saccheggio, il carabiniere Raffone raccontò una versione diversa. Disse per sei volte che Placanica lo aveva schiacciato sul fondo della jeep che “si era messo sopra per difenderci”, usando il plurale. Chi altro c’era allora a bordo?»

Un “graduato” coperto dalla versione ufficiale, come avete denunciato?

«La ricostruzione del sasso che devia il proiettile è una menzogna usata per nascondere il fatto che il proiettile che ha ucciso Carlo non era uno di quelli d’ordinanza. Non sono un esperto d’armi, ma tutti quelli che noi abbiamo contattato concordano su un punto: un calibro 9 parabellum, come quelli usati dai carabinieri, a tre metri di distanza non può provocare un foro d’entrata di 8 millimetri. Allora chi ha sparato?».

Oltraggi al cadavere di Carlo e festeggiamenti in caserma. Che effetto fanno questi racconti?

«Quando si arriva a spaccare la testa ad un ragazzo che è stato appena colpito al volto da un proiettile significa che si è perso ogni residuo di dignità umana. E poi i festeggiamenti e i “benvenuto fra gli assassini”... in questi mesi abbiamo giustamente deprecato e ci siamo giustamente scandalizzato per quei cori disumani che inneggiavano alla strage di Nassiriya, ma qualcuno adesso vorrà usare la stessa indignazione per questa cosa? Non sono due episodi identici? Anzi, forse questa è ancora più grave, perché sarebbe stata detta da rappresentanti dello Stato».

Massimo Solani
l'Unità 30 novembre 2006

martedì, novembre 21, 2006

Il Biscione fa spesa all'estero?


Oggi non tedierò nessuno con squallide storie di servizi segreti, barbe finte e veri furbi. Della "defenestrazione" di Niccolò Pollari sono pieni i giornali, delle foto dei nuovi vertici di Sismi, Sisde e Cesis sono piene le home di tutti i siti Internet. Per cui passo avanti e vi segnalo un articolo molto interessante apparso ieri nelle pagine economiche del quotidiano spagnolo El Pais. Dispiace solo che certe notizie, pur riguardando l'Italia, dobbiamo leggerle su un giornale straniero. Ma si sa, un pò per faziosità di parte (di entrambe le parti ad essere onesti) un po' perché a forza di conviverci sembra quasi diventato usuale anche il conflitto di interessi, da noi s'è persa quasi la capacità di farsi ancora certe domande. Che guarda caso sono spesso scomode. In ogni caso ringrazio Francesco per la segnalazione.

Stando a quanto scrive El Pais, "fallito il tentativo di partecipare all'asta per l'acquisto del 50,5% di Pro Sieben-Sat1 in Germania, il primo gruppo televisivo commerciale in Germania" Mediaset sembra comunque intenzionata a fare shopping all'estero. Tanto che soltanto la settimana scorsa ha di nuovo manifestato il suo interesse per Endemol, il gruppo Olandese proprietario di format quali "Il Grande fratello" (sic), di cui attualmente è azionista di maggioranza (con il 75%) la spagnola Telephonica. "Endemol ha un valore di mercato stimato attorno ai 1.100 milion di euro - scrive El Pais - mentre l'avventura tedesca sarebbe costata più di 3000 miliardi. Il che dà un'idea delle risorse di cui dispone il gruppo Berlusconi. Mediaset infatti l'anno passato ha ottenuto guadagni per 603 milioni di euro e nel 2006 si avvicinerà ai 550 milioni".
Ma perchè il Biscione sembra improvvisamente interessato a quanto succede all'estero se le cose vanno tanto bene in Italia? "L'intenzione di investire all'estero - secondo il quotidiano spagnolo - è rafforzata dal progetto di legge di riforma televisiva elaborato dal governo Prodi. Il centrosinistra vuole infatti porre rimedio alll'egemonia di Silvio Berlusconi sul mercato pubblicitario italiano, attraverso la concessionaria Publitalia, e al dupolio di Mediaset e del servizio pubblico Rai, che assieme assorbono il 90% degli spot televisivi, il 50% del totale del mercato pubblicitario e l'85% dell'audience". Prosegue El Pais: "Berlusconi ha detto che se verrà approvata la legge, Mediaset sarà costretta chiudere. Non è certo, però di sicuro si aprirà una maggiore possibilità per la concorrenza: un canale Mediaset (Rete4) e uno Rai (probabilmente Rai3) dovranno infatti passare anticipatamente al sistema digitale terrestre, il che libererà frequenze per nuovi gruppi privati".
Ma Mediaset, secondo il quotidiano spagnolo, accusa anche il governo di voler favorire (attraverso la riforma Gentiloni) la tv satellitare Sky "sottolinenando ogni volta che può la condizione di "straniera" del gruppo dell'australiano Murdoch senza però accorgersi, evidentemente, che anche Telecinco lo sarebbe per la Spagna".

Domanda facile facile: possibile che il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi sia così grande da vedersi in Spagna ma non Italia? Possibile che la Spagna capisca quanto l'Italia abbia bisogno di una legge seria di riforma del sistema televisivo e qui da noi le oche capitoline continuano a nascondersi dietro al dito della vendetta comunista contro l'ex premier?

Povera Italia.

giovedì, novembre 16, 2006

ControMafie

Come diceva domenica scorsa Serena Dandini, quando Don Ciotti chiama noi rispondiamo sempre presente. E allora ecco la chiamata: da domani a domenica tutti a Roma a ControMafie, gli stati generali dell'antimafia Ci saranno un pò tutti, e si parlerà di tante cose che hanno a che fare con la legalità, con la lotta contro la criminalità organizzata e con questo nostro povero paese. Ci saranno i ragazzi di "Addio Pizzo" di Palermo, quelli di "E adesso ammazzateci tutti" di Locri, i torinesi di Libera e tanti altri. Ci sarà la parte migliore di questo paese, quella che non si arrende allle prepotenze dei "mammasantissima", all'arroganza del potere e alla zona grigia che circonda ogni fenomeno mafioso. Ci saremo anche noi, per dire ancora una volta grazie a Don Ciotti e a tutti i suoi collaboratori.

Per chi volesse maggiori informazioni sul programma della tre giorni, basta consultare il sito di Libera

mercoledì, novembre 08, 2006

Sismi, le bugie e i ricatti del "compagno" Pompa


Una figuraccia, nella migliore e forse più ingenua delle ipotesi. Una sceneggiata imbarazzante, nella più realistica, condita da spiegazioni farsesche e messaggi politici nascosti sotto una goffaggine ostentata quanto sospetta. E’ durata oltre tre ore l’audizione di Pio Pompa davanti al comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi segreti. Una deposizione condita per lo più da contraddizioni, versioni di comodo, difese maldestre e frecciate tutta da decifrare. Tanto che alla fine, su una cosa tutti i membri del Copaco erano d’accordo: le risposte dell’“analista di fonti aperte internazionali e Internet” (per sua stessa definizione) sono state “insufficienti e contraddittorie” (secondo il presidente Claudio Scajola, Forza Italia) o peggio “imbarazzanti” (per dirla come il vice Massimo Brutti, diessino). Ed è quasi normale che a questo punto unanime sia la speranza che il governo ponga mano quanto prima al ricambio dei vertici dei servizi. Perché da qualsiasi angolazione la si voglia vedere, il titolare dell’ufficio “disinformazione” del Sismi di via Nazionale e braccio destro di Pollari non ha fornito una sola spiegazione convincente a quello che le indagini della procura milanese ha portato alla luce in questi mesi.
Al centro della scena lui, l’ex dipendente Telecom abruzzese e professore universitario a contratto diventato di colpo braccio destro del direttore del servizio segreto militare e fatto assumere proprio da Niccolò Pollari in pianta stabile al Sismi grazie alle “raccomandazioni” del fondatore del San Raffaele Don Verzè (l’ha spiegato lui stesso). Curvo, quasi ingobbito dietro agli spessi occhiali da miope con la montatura pesante, a San Macuto Pompa ha deciso di rompere il silenzio tenuto in procura a Milano e, con in tasca una autorizzazione del ministero della Difesa e un più che probabile invito a presentarsi caldeggiato dal suo superiore Pollari, con i membri del Copaco si è impegnato in una lungo e confuso slalom. “Sono qui per difendermi - ha spiegato –, perché i giornali ne hanno dette di tutti i colori sul mio conto. Sono stato dipinto come un inquinatore, ma io non ho fatto nulla”. Parole che contrastano in maniera stridente con quanto emerso dall’inchiesta milanese sul rapimento Abu Omar (nella quale è indagato per favoreggiamento) che ha messo in luce i tentativi del Sismi di controllare tanto l’attività di alcuni giornalisti (sottoposti persino a intercettazioni telefoniche) quanto quella dei magistrati Spataro e Pomarici (anche grazie all’opera del vicedirettore di LIbero Renato Farina, che peraltro ha chiesto di essere sentito dal Copaco presentando una lunga memoria difensiva). “Farina non era retribuito, le ricevute di pagamento erano soltanto relative ad alcuni rimborsi. – si è limitato a spiegare Pompa, che al Copaco di è presentato con due trolley carichi di carte e che ha consegnato un voluminoso dossier di documenti personali –. Io avevo rapporti con molti giornalisti di molte testate. Anche arabi”. Giornalisti di cui Pompa non ha esitato a fare nomi e cognomi.
Spinoso il capitolo relativo al dossier rinvenuto in via Nazionale sulla struttura dei nemici del governo Berlusconi da “disarticolare” anche con mezzi traumatici: “Quel documento mi è arrivato da un anonimo a L’Aquila – ha spiegato –. Lo avevo dimenticato, è rimasto per molti mesi in una borsa”. Eppure, stando almeno alle ricostruzioni della procura di Milano, Pompa è stato ispiratore di una campagna di stampa diffamatoria contro Romano Prodi. “Ma io sono figlio di operai, da giovane ero comunista – si è difeso – e diffondevo l’Unità. Ho persino fatto una tesi di laurea su Togliatti e il Mezzogiorno. E alle ultime elezioni ho votato per Romano Prodi”.
Ma per certi versi, davanti al Copaco Pompa ha persino scaricato il suo benefattore Pollari smentendo di avere avuto un ruolo nella diffusione di un’altra polpetta avvelenata contro Prodi, ossia quella dell’ormai famigerato dossier Telekom Serbia. Versione accreditata dallo stesso Pollari ai magistrati del capoluogo piemontese. “Io non ho confezionato nulla – ha raccontato Pompa – nel 2001 raccolsi un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Bocchino e la consegnai a Pollari. Io non c’entro nulla”. Verità o bugie, difficile capirlo. Lapidario in proposito il commento di Milziade Caprili (Rifondazione) all’uscita da San Macuto: “Pompa non mi ha convinto neanche quando ci ha detto come si chiama”.
Massimo Solani
l'Unità 8 novembre

giovedì, novembre 02, 2006

Cento morti e non sentirli


Nel 2005 la camorra ha fatto secche 90 persone. Nel 2006 solo 76, ma ha ancora due mesi di tempo per eguagliare il record. La risposta dello Stato, però, è stata all’altezza della situazione. In attesa di inviare mille poliziotti in più, che andranno ad aggiungersi ai 13.500 già schierati sul campo, il Parlamento ha già provveduto, con l’indulto, a inviare sul posto altri delinquenti in più, casomai non bastassero quelli già a piede libero. Ora, se misurassimo, anche a spanne, le parole dedicate dalla classe politica, e dunque da giornali e tv al seguito, all’analisi della criminalità organizzata e dei rimedi per combatterla, e lo confrontassimo con quelle usate sul fronte del fondamentalismo islamico, il rapporto sarebbe di uno a dieci, forse di uno a mille. Eppure, a oggi, i morti per terrorismo islamico sul territorio italiano sono zero. Mentre i morti per camorra, mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona sono centinaia ogni anno.
Le ultime stragi, in Italia, le ha fatte un’organizzazione terroristica denominata Cosa Nostra nel 1992-’93, fra Palermo, Milano, Firenze e Roma. Gli esecutori materiali sono dentro, mentre i mandanti «esterni» restano, secondo le stesse sentenze che condannano gli esecutori, «a volto coperto». Cioè fuori. La Seconda Repubblica - come ha ricordato l’altroieri il pm Ingroia presentando a Palermo «Il gioco grande» di Giuseppe Lobianco e Sandra Rizza (Ed. Riuniti) ­ «è nata sul sangue dei magistrati, degli uomini di scorta e dei cittadini assassinati in quella mattanza, ma i mandanti non interessano a nessuno».
In compenso, con uno sforzo di altruismo davvero encomiabile, siamo molto interessati ai mandanti delle stragi in casa d’altri, tant’è che da quattro anni collaboriamo a radere al suolo l’Afghanistan e l’Iraq, senza peraltro cavarne un ragno dal buco, mentre dei morti di casa nostra, anzi di Cosa Nostra, allegramente c’infischiamo. Uno straniero che, per masochismo, leggesse l’opera omnia dei nostri migliori intellettuali, da Panebianco a Ferrara, verrebbe colto da un lievissimo senso di spaesamento: possibile che queste teste d’uovo non parlino d’altro che di Islam radicale, avendo sull’uscio di casa pericoli ben più concreti e incombenti che parlano e sparano in italiano? Per tutta l’estate ha spopolato un editoriale di Panebianco, a metà strada tra Kafka e Ionesco, che domandava se non sia il caso di autorizzare una «zona grigia» di illegalità per consentire ai nostri servizi di torturare almeno un po’ i terroristi islamici (che fortunatamente, finora, In Italia non hanno sparato neppure un petardo a Capodanno). Ora ferve il dibattito su quell’autentica emergenza nazionale che sono le donne col velo islamico, per non parlare delle due o tre avvistate in Val Brembana addirittura col burka. I passamontagna e i giubbotti con kalashnikov incorporato a Napoli e Reggio Calabria allarmano molto meno. Giuliano Ferrara, sempre molto intelligente ma soprattutto molto intelligence, dedica colate di piombo (di tipografia) alle gravi minacce incombenti sui vignettisti danesi che prendono per i fondelli Maometto, per poi scoprire che in Italia c’è uno scrittore, Roberto Saviano, che finisce sotto scorta per essersi occupato di mafia, cioè di un tema che da parecchi anni è uscito dall’agenda dei molto intelligenti (salvo, si capisce, quando si tratta di attaccare i magistrati antimafia, spontaneamente o su commissione del Sismi). Ancora l’altro giorno s’invocavano pene esemplari contro l’imam di Segrate, reo di aver dato dell’ ignorante alla signora Santanchè che si era dimostrata ignorante in fatto di Corano. E Magdi Allam, sul Corriere, ammoniva severamente chi consente ad Al Jazeera di celebrare l’anniversario della sua fondazione. Ora, per carità, non saremo noi a sottovalutare il pericolo della propaganda televisiva contro chi combatte, o dice di combattere, il terrorismo islamico. Ma della propaganda televisiva contro chi combatte le mafie ne vogliamo parlare? Ieri, sul Foglio, Lino Jannuzzi rivendicava con orgoglio i suoi rapporti con i servizi deviati, con Gelli, Liggio, Michele Greco detto «il Papa», Ciancimino e altri galantuomini, sostenendo che avere «molti amici criminali» è normale, «perché sono un giornalista». Fortuna che nessuno di quegli amici si chiama Mohammed. Altrimenti, invece di pubblicargli il pezzo, Ferrara lo faceva arrestare su due piedi.


Marco Travaglio, Uliwood party
l'Unità 2 novembre